I romani erano soliti allevare ghiri in un apposito recipiente, il glirarium, per poi ucciderli e servirli durante i banchetti
Il glirarium è un recipiente di terracotta utilizzato nell’allevamento dei ghiri soprattutto nel periodo etrusco e romano. L’uso è attestato da Varrone nel “De Agricultura” e descritto come un normale vaso all’esterno mentre all’interno somigliava a una tana artificiale. Queste “gabbie” per ghiri avevano una particolarità, erano ventilate ed erano provviste di un cavo per contenere il cibo, somministrato all’animale dall’esterno. Dunque, il glirarium era traforato per consentire il passaggio dell’aria ed era chiuso nella parte superiore da un coperchio. All’interno c’erano piccoli corridoi, perpendicolari alle pareti, che permettevano ai ghiri di muoversi e allo stesso tempo di stare al buio in modo che potessero dormire e ingrassare.
Plinio definisce questi vasi “vivaria in doliis” ossia allevamenti in giare. La loro invenzione è attribuita a Fulvio Lippino, esperto nella preparazione di cibi raffinati e popolare per la sua preparazione di lumache. La carne di questo animale era un piatto particolarmente apprezzato e pregiato da essere consumato solo dalle classi più agiate. Nel “Satyricon”, Petronio Arbitro parla di ghiri conditi con miele e semi di papavero serviti come antipasto durante il banchetto. In uno dei libri di cucina più antichi che sono giunti fino a noi, il “De re coquinaria”, Marco Gavio Apicio fornisce la ricetta di un piatto a base di ghiri. Il roditore doveva essere riempito di carne di maiale macinata e delle sue stesse interiora, cosparso con pepe, laser (il succo del silfio oggi estinto), noci e brodo dopodiché era bollito o cotto al forno.
Il glirarium in cui erano allevati i ghiri
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