Regioni e Comuni possono emanare divieti più restrittivi dello Stato

Le autorità locali possono sfruttare il potere di emettere ordinanze urgenti per tutelare igiene e sanità pubblica in caso di necessità

Regioni e Comuni possono emanare divieti più restrittivi dello Stato
Regioni e Comuni possono emanare divieti più restrittivi dello Stato. Le ordinanze locali valgono ancora o adesso prevalgono le limitazioni decise dal Governo per l’emergenza coronavirus? La sera del 3 aprile, si è parlato di mantenere per altri 10 giorni i provvedimenti più restrittivi già presi dalle Regioni. Che fine hanno fatto l’uniformità e il coordinamento promessi il 25 marzo, quando è stato emanato il Dl 19/2020, che ha disciplinato le decisioni e cambiato le sanzioni?

L’antefatto

Sino a febbraio inoltrato, a vedere i comportamenti di popolazione, aziende e forze politiche, pareva che il dilagare del Covid-19 potesse riguardare solo la Cina: in Italia si temeva fortemente che arrivasse, ma nessuno ha chiesto le misure drastiche adottate in quel Paese per fermarne subito la diffusione. Ma poi il dilagare dei contagi ha mandato in crisi la rete ospedaliera, che negli ultimi 20 anni ha subìto chiusure e tagli di personale e ora non ha sufficienti posti (soprattutto in terapia intensiva). E la materia rientra fra le competenze delle Regioni, quindi i governatori hanno capito che avrebbero rischiato batoste elettorali future e forse anche avvisi di garanzia da qualche Procura.

Così tutte le autorità locali si sono fatte prudenti. Più prudenti del Governo. E hanno sfruttato il potere di emettere ordinanze urgenti per tutelare igiene e sanità pubblica in caso di necessità (legge 833/1978, articolo 32, comma 3). Ecco perché in molti casi abbiamo divieti locali più restrittivi di quelli nazionali ed è difficile stare dietro alla loro evoluzione.

Rischio paralisi decisionale

In una situazione del genere, diventa difficile anche riuscire a prendere decisioni: il Governo ha imposto la maggior parte dei divieti con una serie di Dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri), un tipo di provvedimento previsto già dal primo decreto legge sull’emergenza coronavirus (il Dl 6/2020, del 23 febbraio) che richiede di sentire anche le Regioni. Se i governatori non sono d’accordo, si rischia di far trascorrere in discussioni tempo prezioso, nonostante si stia parlando di provvedimenti urgenti.

Questo spiega, per esempio, il motivo per cui il divieto di uscire dal territorio del Comune in cui ci si trova è stato imposto per la prima volta il 22 marzo da un’ordinanza del ministro della Salute. Un atto che non richiede di sentire le Regioni ed è vincolante fino a che non viene superato da un Dpcm o da una norma di rango ancora superiore (legge o decreto legge).

Solo ore dopo è stato possibile emanare un Dpcm (entrato in vigore solo il giorno successivo, data l’ora tarda) che, oltre a confermare questo divieto di spostamento, ha disciplinato una materia spinosa: l’elenco delle attività che possono restare aperte. Il 21 marzo il Piemonte e la Lombardia avevano emanato proprie ordinanze che chiudevano, per esempio, anche gli studi professionali, non toccati dalle decisioni del Governo.

Situazioni analoghe per le ordinanze locali che vietavano espressamente di uscire di casa anche per fare jogging nelle vicinanze, come invece consentivano le norme nazionali e le interpretazioni che ne dava il ministero dell’Interno.

Fonte: ilsole24ore.com

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FonteUfficiale.com